Il linguaggio inclusivo

Di tutte le cose che possiamo fare nella nostra vita, comunicare è ancora una delle più sovversive. In base al linguaggio che utilizziamo possiamo evocare immagini, diffondere credenze, trasferire bias, consolidare o decostruire stereotipi. Abbiamo un impatto sulle altre persone influenzandone il pensiero e contribuiamo a modellare la cultura organizzativa in cui ci troviamo. La potenza di questo strumento sta proprio nel fatto che è alla portata di ognuna e ognuno di noi.

Per tutte queste ragioni è di fondamentale importanza avere consapevolezza del linguaggio che utilizziamo e dei significati che stiamo veicolando realmente. Generalmente abbiamo poca abitudine a riflettere sulle parole che usiamo perché, in un’epoca in cui le informazioni che riceviamo sono sempre di più e il tempo a disposizione per processarle sempre meno, semplifichiamo e ci affidiamo agli automatismi. Parliamo e scriviamo utilizzando espressioni sedimentate da tempo nella nostra mente, incappando in stereotipi e pregiudizi molto più spesso di quanto crediamo.

Fortunatamente negli ultimi anni è cresciuta molto l’attenzione sull’importanza del linguaggio e su quanto possa favorire l’inclusione, soprattutto negli ambienti di lavoro. Dall’altra parte, però, si è verificato un inasprimento del dibattito su alcune questioni linguistiche legate soprattutto al genere e all’identità di genere.

Un esempio è l’ilarità e la resistenza che suscita ancora tutt’oggi la declinazione al femminile di alcune professioni e incarichi istituzionali. Si pensi ad esempio a sindaca, ministra, avvocata, ingegnera. O a membra e membre (nell’accezione di “donne appartenenti a una collettività”, corrispondente femminile di membro e membri al maschile) sul cui utilizzo l’Accademia della Crusca, interpellata direttamente da Equi-Lab, si è espressa favorevolmente.

Le argomentazioni a sostegno del rifiuto all’uso delle professioni declinate al femminile sono le più disparate e creative. C’è chi ritiene questi termini cacofonici, chi rivendica che la lingua italiana vada difesa e mantenuta “pura”, chi sostiene che ci sono problemi ben più importanti di cui occuparsi o chi, semplicemente, ha paura del cambiamento.

Declinare al femminile determinate professioni significa renderle visibili, riconoscerne l’autorevolezza e sancire un ruolo paritario tra donne e uomini in quelle determinate funzioni. Per alcune professioni non si utilizzava l’equivalente femminile semplicemente perché, in passato, non c’erano donne che le svolgevano. La lingua è lo specchio della società e se oggi le donne, differentemente rispetto al passato, accedono a determinate posizioni, è corretto e sensato applicare una concordanza grammaticale di genere, accettando che le cose sono cambiate e stanno cambiando.

Si tratta di un cambiamento culturale e linguistico riconosciuto anche nella Guida all’uso inclusivo della lingua italiana nei testi della Confederazione di recente pubblicazione, sebbene si tratti di un riconoscimento parziale. Se da una parte si afferma che sia corretto adottare anche quelle formulazioni femminili che potrebbero essere percepite bizzarre, come muratrice o scotennatrice, dall’altra si indica di utilizzare il termine capo indistintamente per uomini e donne, presupponendo che l’equivalente femminile abbia ancora una connotazione scherzosa. E così, quando ci si riferisce a una donna con responsabilità direttive in seno all’Amministrazione federale si dice “il capo del Dipartimento”, “il capo del Servizio” o “il capo sostituto”.

Un altro retaggio che permane nelle Linee guida dalla Confederazione è l’utilizzo del maschile universale per riferirsi a gruppi che includono entrambi i generi. Questa soluzione continua ad essere utilizzata perché si ritiene che lo sdoppiamento di termini al maschile e al femminile appesantisca i testi e, inoltre, non permetta di includere le persone che non si riconoscono nel binarismo di genere. L’attenzione rivolta alla comunità LGBTQ+ è senz’altro più che apprezzabile, ma l’uso sistematico del maschile sovra esteso non appare essere la soluzione più adatta in quanto, tra le numerose opzioni linguistiche a nostra disposizione, è una delle più discriminatorie.

Sebbene la lingua italiana sia complessa e la formulazione inclusiva possa richiedere degli sforzi, vale la pena provare a trovare delle alternative al maschile universale. La riformulazione sintattica può venire in nostro soccorso, permettendoci di cambiare la prospettiva delle frasi, lasciando definire il soggetto al verbo o utilizzando forme impersonali. Vale la pena anche provare a sbagliare, lasciarsi andare a qualche imperfezione, sperimentare, se questo vuol dire aprirsi all’inclusione. Con le nostre parole possiamo veramente fare la differenza, basta solo iniziare a provarci.